Creare un mondo (world-building) è diverso dal raccontare una storia (storytelling). Secondo alcuni la differenza è semplice, ed è la stessa che intercorre tra leggere la pagina Wikipedia sulla Battaglia di Dunkerque o guardare Dunkirk. Costruire un mondo significa stabilirne le fondamenta e definire le leggi che lo regolano (stakeholder, rapporti, geografie fisiche e virtuali), invece raccontare una storia pone alcuni personaggi al centro osservando il mondo dal loro punto di vista. Una storia, con tutti i suoi dettagli, può abitare soltanto in un certo mondo. Un mondo ben costruito, invece, può ospitare centinaia di storie diverse, che possono addirittura interagire tra di loro.
Costruire un mondo in cui far abitare un progetto culturale è una disciplina che, chiaramente, non può seguire pedissequamente le indicazioni fornite dai migliori manuali di world-building, pensato perlopiù per mondi fiction.
Un progetto culturale assume una rilevanza inequivocabile quando dialoga chiaramente con il mondo reale e i suoi impatti sono altrettanto chiaramente rintracciabili.

Per questo motivo, se il world-building tradizionale domanda la creazione di biologie, geografie e politiche interamente nuove, quello culturale ha più il compito di rendere evidente la rete di spazi e persone con cui il progetto dialoga e gli approcci attraverso cui lo fa. Far emergere l’identità del progetto, il suo compito, l’orizzonte a cui ambisce, gli stakeholder che coinvolge, il senso del vocabolario che utilizza.
Il world-building e la comunicazione in ambito culturale, dunque, non è un processo di estrazione di valore ma di condivisione dello stesso. È il processo di creazione di un mondo narrativo in cui calare il progetto a partire dal materiale grezzo già a disposizione, organizzandolo e – soprattutto – mettendolo in discussione.
Infatti, se il progetto non fornisce materiale a sufficienza per poter costruire perlomeno l’impalcatura del mondo in cui dovrebbe abitare, forse è proprio il senso del progetto a dover essere ridiscusso. Non mi riferisco soltanto alle “azioni” di progetto: ciò deve essere chiaro sin dal momento zero è l’orizzonte di senso verso cui si rivolge il progetto, la prospettiva politica che assume, la postura che adotta nei confronti dei propri stakeholder.
Un buono strumento per questa prima verifica è la coppia vision & mission, mutuata dal mondo della gestione aziendale. Questi due termini, coniati per definire delle forme di narrazione strategica interna alle aziende, indicano rispettivamente l’orizzonte di senso a cui ambisce una data azienda e le azioni che l’azienda intende svolgere per esaudire quel senso (per esempio, la mia azienda vuole un mondo più al caldo e per ottenerlo produce maglioni della migliore lana possibile)

Vision & mission sono tassonomie limitanti, di fatto riduttive e spesso imprecise ma riescono nell’impossibile impresa (soprattutto quando si parla di cultura) di essere sintetiche. Enucleano i lemmi, i verbi e gli obiettivi chiave del lavoro di un’azienda. Proporre la stessa griglia per un progetto culturale obbliga il progettista a innescare un processo di emersione di senso indispensabile e spesso offuscato dalla crescente burocratizzazione della progettazione culturale.
È a partire dal patrimonio semantico accumulato grazie ad un esercizio come questo che la comunicazione può mettere alla prova la progettazione, verificando che il progetto sia davvero in grado di abitare un mondo (reale o fittizio che sia) o se, invece, non si riveli più fine a sé stesso del previsto. Con vision & mission è possibile costruire le fondamenta del mondo che verrà abitato dal progetto: il suo nome, la relazione con le restanti attività dell’organizzazione che lo promuove, il contesto culturale in cui si cala e il senso politico che intende indicare. Questi aspetti, apparentemente utili soltanto a raccontare una “bella storia”, svolgono invece una funzione miracolosa: espropriano la singola progettazione e la consegnano a tutti i suoi pubblici, rendendo la sostanza culturale dietro al progetto riproducibile, malleabile, scalabile — in un certo senso, open source. Così facendo, si ampliano realmente gli spazi di partecipazione, si moltiplica il potenziale di un progetto, si adotta davvero un approccio collaborativo, anche se non è direttamente misurabile.
Quando il mondo che ospita il progetto culturale è realizzato con cura, diventa ospitale anche per altre persone e per altri (eventualmente nuovi) progetti. Penso a parole, frasi, immagini, spazi narrativi così densi di significato da restituire la percezione di quello che io definisco un “meta-luogo quasi-fisico”: una porzione di immaginazione collettiva generativa, in grado non soltanto di ampliarsi grazie al contributo di altre progettazioni (strutturate o spontanee che siano), ma dai connotati unificanti.
Sono immaginari che accolgono impulsi culturali e li trasformano in azione politica. C’è chi li usa ad arte per proporre interventi oppressivi sulla società, come nel caso dell’alt-right americana, della cosiddetta Pepe Magick, della cospirazione di QAnon e del trumpismo tutto. Si tratta di mondi potentissimi, che dobbiamo riprendere e ricostruire per promuovere politiche liberanti, unificanti e solidali – le uniche che ci permetteranno di sopravvivere a questi anni così bui.
Estratto da CheFare : Complesso/Complicato è la nostra raccolta di appunti urgenti di progettazione culturale
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