Sarebbe bello vivere in insediamenti (paesi o città) non congestionati da tecnologie e pratiche sociali ecologicamente destabilizzanti, e modellati da forme architettoniche e disposizioni urbanistiche attente alla “sostenibilità” di ogni realizzazione artificiale. Così si eviterebbe un’eccessiva impermeabilizzazione dei suoli, verrebbe favorita la percolazione delle acque e si mitigherebbero i deflussi idrici dovuti a precipitazioni irregolari e violente, i cui regimi risultano alterati dal disordine climatico in corso. Sarebbero paesi e città con abbondanti superfici di verde urbano, ben curato e gestito da tecnici preparati e sensibili che lo considerino un bene comune della collettività e non un arredo urbano “che se fosse di plastica sarebbe perfetto”. Ciascuna di queste comunità locali dovrebbe avere intorno a sé una rete di piccoli agricoltori e allevatori biologici consapevoli, colti e preparati, anche se non obbligatoriamente inquadrati in sistemi ufficiali di certificazione della qualità. Le attestazioni formali vengono difatti rese inutili da relazioni di conoscenza diretta tra produttori e consumatori finali del cibo, e tutt’al più potrebbero essere impiegate procedure di tipo Sgp/Pgs (Sistemi di Garanzia Partecipata)”.
Gli agricoltori produrrebbero la quasi totalità degli alimenti per le comunità in cui abitano, e delle reti di coltivatori diretti potrebbero, con il supporto di istituzioni pubbliche, conferire materie prime alimentari di produzione locale (non importate) a.microindustrie e laboratori distrettuali di trasformazione.
Occorrerebbe perciò avviare un graduale smantellamento e a medio termine un autentico ribaltamento del convenzionale sistema di distribuzione della Gdo, facendo rinascere e rivivere botteghe rionali, piccoli market gestiti da famiglie (e non da Società quotate in Borsa), Gas-Gruppi di Acquisto Solidale, vendita diretta nelle aziende agricole, mercati contadini svolti in ogni paese almeno due volte a settimana. Ovviamente questa politica di filiera corta non dovrebbe essere sostenuta solamente a parole, come spesso accade, ma con reali sgravi fiscali, con provvedimenti di adeguata tassazione del suolo pubblico, con veloci procedimenti autorizzativi di livello comunale, comprensoriale o regionale.
Ognuno di questi paesi o quartieri urbani dovrebbe avere uno o più mulini in pietra, e degli agricoltori locali dovrebbero coltivare il frumento intorno agli insediamenti (il grano costituisce storicamente il 70-75% della nostra alimentazione di popolazioni mediterranee); la gente potrebbe inoltre cuocersi il pane o altri prodotti da forno in forni comunitari rionali, La legna per gli stessi dovrebbe ove possibile essere fornita da ciascun Comune con la gestione di Piani di forestazione dei territori comunali più scoscesi e dei terreni meno fertili o a rischio erosione. In questi Piani di forestazione democraticamente ripartiti e programmati nelle varie località dovrebbero essere investiti fondi pubblici (che si trovano sempre quando ci sono da attivare grandi appalti, appetibili da grossi interessi privati per realizzare gradi opere, Mose, Expo, TAV, Stadi, Olimpiadi, G7, G.8. ecc); fondi che che invece mancano se si tratta, “più modestamente”, di piantare alberi intorno ai centri abitati.
Il principio dell’autosussistenza boschiva degli insediamenti è semplice: qualsiasi agricoltore “ignorante” può comprenderlo; è tuttavia importantissimo per proteggere i suoli (almeno nelle aree marginali), per contrastare il dissesto idrogeologico, per fornire legna da ardere, foraggi e ghiande comunitarie agli abitanti e allevatori dei paesi, per far rinascere le sorgenti e per altri benefici derivanti dalle formazioni agroforestali. Si tratta di servizi ecosistemici di cui ormai tutti parlano nei convegni sull’ecosostenibilità. Le misure di rigenerazione ambientale e mitigazione degli squilibri climatici in corso sono abbondantemente illustrate in libri e opuscoli di settore. Tuttavia al momento pochi amministratori sono forniti delle opportunità (e spesso anche del coraggio) necessari per realizzare nei propri Comuni le trasformazioni auspicabili in maniera sistematica e diffusa.
L’allevamento del bestiame in prossimità di questi paesi non dovrebbe essere svolto in funzione dei contributi eurocomunitari disponibili (Pac) ma dei reali fabbisogni in prodotti zootecnici delle popolazioni locali, e in base alle locali capacita agroecosistemiche di sostenere i carichi foraggeri e armentizi nelle rispettive aree. In altri termini bisognerebbe tornare ad applicare (ovviamente con i dovuti “aggiornamenti”), un criterio generale di compatibilità ambientale delle attività economiche locali. Un criterio che in lontane epoche storiche (in tempi tutt’altro che idiliaci ma non ancora egemonizzati dai meccanismi della produttività commerciale, delte enologie industriali e dell’individualismo proprietario) era conosciuto, ammesso e praticato dalle popolazioni rurali per necessità e in base ai loro saperi contestuali.
Gli abitanti dei luoghi sono portati ad agire con prudenza e sollecitudine verso le risorse rinnovabili quando l’agire territoriale è ispirato a modelli di autosostenibilità condivisa dello sviluppo locale; quando le loro condotte quotidiane non sono omologate dall’aspirazione ad un benessere consumistico. I residenti locali sono allora consapevoli del ruolo decisivo delle loro ricchezze ecologiche, e non appiattiscono le loro pratiche sull’esclusivo procacciamento di produzioni merceologiche. Sanno che, se bene amministrati, i patrimoni culturali e naturali della loro bioregione urbana (beni comuni storici e ambientali, materiali e immateriali) continueranno a “dare loro da vivere”: a fornire materie, energie e informazioni capaci di sfamarli, dissetarli e rifornirli di beni e servizi essenziali al loro metabolismo organico, alla soddisfazione di fondamentali bisogni psichici e al conseguimento di stili di vita ecosostenibili.
Forme composite (ancorché spesso socialmente “molecolari”) di ritorno alla terra sono d’altronde già in atto nei territori locali, anche se non ovunque con la stessa intensità. Occorre rappresentarsele come salutari reazioni individuali o micro-sociali alla crisi di civiltà che caratterizza il nostro presente. Programmi e progetti di zootecnia ecosostenibile, di permacultura, di agricoltura naturale (scuola Fukuoka), di recupero e tutela della biodiversità agricola, di frutteti naturali o di «foreste di cibo» dovrebbero perciò essere sostenute per quanto possibile finanziati dalle comunità locali e dalle istituzioni territoriali per la loro valenza formativa, sociale ed ecologica.
Le varie iniziative agrosociali cui facciamo riferimento in tutto il nostro libro vanno ricondotte, di concerto con svariate innovazioni agroeconomiche cui abbiamo accennato in questa sede, alla cornice generale di una economia trasformativa che sia indirizzata alla (ri)conversione ecologica dell’organizzazione sociale. Si tratta di puntare a un”‘economia diversa”, incentrata su attività lavorative e azioni civiche consapevoli del ruolo decisivo assunto dai beni comuni naturali per la buona vita delle persone. Bisognerebbe provvedere alla rigenerazione delle risorse vitali a mezzo di ecosistemi e territori ben mantenuti. Le attività agricole, zootecniche e forestali che abbiamo chiamato in causa vanno perciò intese come parte integrante di una economia collaborativa a indirizzo trasformazionale: un’economia in cui i cittadini delle aree rurali riprendano finalmente in mano il senso delle loro attività quotidiane e ne riorganizzino lo svolgimento per conseguire una rinnovata praticabilità delle loro esistenze individuali e collettive.
Il nostro cibo. Per la sovranità alimentare della Sardegna pag 57-63