[49] Quando percepiamo il profumo di tartufo, riceviamo una comunicazione unidirezionale che va dal fungo al mondo. E un processo relativamente privo di sfumature. Per attrarre un animale, l’odore deve essere intrigante e appetitoso, ma prima di tutto deve essere forte e penetrante. Se non ha molta importanza che a spargere le spore sia un cinghiale o uno scoiattolo volante, che senso ha essere esigenti? Qualsiasi animale affamato inseguirà un profumo delizioso. Inoltre, il tartufo non modifica il proprio profumo a seconda della nostra reazione immediata. Può eccitare, ma non è eccitabile. I suoi segnali esplodono forti e chiari, e una volta partiti non si fermano. Il tartufo aveva trasmesso un messaggio privo di ambiguità in una lingua franca chimica, un aroma popolare capace di attirare le masse e tale da far convergere me, Daniele, Paride, due cani e un topo in un punto ben preciso sotto un cespuglio di rovi su un argine fangoso in Italia.
[62] Lynne Boddy docente di ecologia microbica dall’università di Cardiff, studia da molti anni il comportamento del micelio alla ricerca di cibo e nelle sue brillanti ricerche ha descritto i problemi che reticoli miceliari sono in grado di risolvere.
Boddy è una studiosa pragmatica e descrive con misurato stupore le abilità dei funghi che analizza, i quali si comportano in modo analogo alle muffe mucillaginose. I test che ha condotto sono simili a quelli dei colleghi giapponesi, anche se invece di spingere il micelio a modellare la rete metropolitana di Tokyo, Boddy lo ha incoraggiato a trovare la via più breve per collegare varie città della Gran Bretagna. Ha disposto del terriccio in modo da riprodurre la superficie della Gran Bretagna e ha poi segnato i centri urbani con dei pezzi di legno colonizzati da un fungo (il falso chiodino, Hypholoma fasciculare). Le dimensioni di questi «segnaposto» erano proporzionali alla popolazione della città che dovevano rappresentare. «I funghi sono cresciuti verso l’esterno delle “città” e hanno ricostruito la rete autostradale» racconta Boddy. «Si vedevano la M5, la M4, la MI, la M6. Molto divertente».
I reticoli miceliari si possono pensare anche come sciami di apici ifali. Gli insetti formano sciami, ma anche uno stormo di stormi è uno sciame, così come un banco di sardine. Gli sciami sono schemi di comportamento collettivo. Anche senza un capo o un centro di comando, uno sciame di formiche riesce a trovano i via più breve verso una fonte di cibo e uno sciame di termiti sa realizzare elaborate strutture architettoniche. L’analogia con i sciame però finisce qui, perché il micelio ne supera rapidamente i confini: tutti gli apici ifali di un reticolo sono connessi tra loro. Un termitaio è composto da singole unità di termiti e l’apice ifale e ciò che più si avvicina all’unità di base dello sciame micellare, ma è impossibile demolire un reticolo miceliare un’ifa dopo l’altra, come invece potremmo fare con uno sciame di termiti. Il concetto di micelio è scivoloso: dal punto di vista della rete, il micelio è una singola entità interconnessa; dal punto di vista dell’apice ifale, è una moltitudine.
«Credo che noi esseri umani abbiamo molto da imparare dal micelio» riflette Boddy. «Non si può chiudere una strada e stare a guardare come si modifica il flusso del traffico, però è possibile interrompere un collegamento all’interno di un reticolo miceliare». I ricercatori hanno cominciato a usare organismi che si sviluppano in reticoli, come le muffe mucillaginose e i funghi, per risolvere problemi umani. Gli stessi scienziati che hanno riprodotto la rete ferroviaria di Tokyo con le muffe mucillaginose stanno studiando come applicare il comportamento di queste muffe alla progettazione delle reti di trasporto urbano. Alcuni ricercatori dell’Unconventional Computing Laboratory della University of the West of England hanno usato le stesse muffe per calcolare i percorsi di evacuazione più efficienti in un edificio in caso di incendio. Altri ancora applicano le strategie che i funghi e le muffe mucillaginose mettono in atto per uscire da un labirinto per risolvere problemi matematici o per programmare i robot.
Trovare soluzioni a problemi e a percorsi complessi non è un esercizio banale. Per questo i labirinti sono da tempo usati per valutare le capacità di problem solving di svariati organismi, dai polpi alle api, agli esseri umani. I funghi, in particolare, sono perfetti abitanti dei labirinti: risolvere problemi spaziali e geometrici è ciò per cui si sono evoluti. Come distribuire al meglio il proprio corpo nello spazio è una domanda che si pongono di continuo. Più il reticolo è fitto, migliore sarà la sua capacità di trasporto, ma non è la soluzione ideale per esplorare lunghe distanze. Più il reticolo è rado, più efficace sarà la ricerca di cibo in ampie porzioni di terreno, ma la minore quantità di collegamenti interni porta a una maggiore vulnerabilità. Come si destreggiano dunque i funghi per trovare un compromesso tra queste due opzioni mentre esplorano il suolo in cerca di cibo?
[68] Il micello è la struttura che consente al fungo di nutrirsi. Alcuni organismi, come le piante fotosintetiche, producono da soli il proprio cibo; altri, tra cui la gran parte degli animali, lo trovano nell’ambiente, lo assumono e, una volta all interno del corpo, lo digeriscono e lo assorbono. I funghi hanno una strategia diversa, digeriscono il mondo li dov’è, poi lo assorbono nel loro corpo. Le
ife sono lunghe e ramificate, ma il loro spessore è pari a quello di una sola cellula: tra i due e i venti micrometri di diametro, il che vuol dire cinque volte più sottili di un capello umano. Quanto più le ife riescono a espandersi nell’ambiente circostante, tanto più cibo possono consumare. La differenza tra animali e funghi è semplice: gli animali si nutrono introducendo il cibo nel loro corpo, i funghi introducendo il loro corpo nel cibo.
Il mondo, però, è imprevedibile. Quasi tutti gli animali reagiscono all’incertezza spostandosi. Se trovano una zona particolarmente ricca di cibo, vi si stabiliscono. Il micelio, invece, costretto a incorporarsi in una fonte di cibo irregolare e imprevedibile, deve necessariamente cambiare forma. Il reticolo miceliare è ricerca opportunistica, vivente, in espansione; speculazione in forma corporea. Questa tendenza è nota come «indeterminismo» comportamentale: due reticoli miceliari non sono mai identici.
Domandarsi che forma ha il micelio sarebbe come chiedersi che forma ha l’acqua. Potremmo rispondere a questa domanda solo se sapessimo dove cresce quel particolare micelio. Una bella differenza rispetto agli esseri umani, che condividono tutti lo stesso schema corporeo e intraprendono percorsi di sviluppo simili: a meno che non ci sia un intervento esterno, se nasciamo con due braccia, ci ritroveremo sempre con due braccia.
[71] Nel 1995 l’artista francese Francis Alys passeggiò per alcuni giorni per le strade di San Paolo portando con se un barattolo di vernice blu bucato sul fondo. Mentre vagava per la città, il flusso continuo di vernice tracciava un sentiero alle sue spalle, una vera e propria mappa del suo itinerario, una sorta di ritratto temporale. La performance di Alys illustra bene la crescita ifale: l’artista e l’apice, il lungo sentiero alle sue spalle è il corpo dell’ifa. La crescita avviene sulla punta; se Alys si fosse fermato, si sarebbe fermata anche la linea blu. Anche la nostra vita può essere una buona similitudine: l’apice che cresce è l’istante presente – la nostra esperienza vissuta nel qui e ora – che rosicchia il futuro mano a mano che avanza; la storia della nostra vita è invece il resto dell’ifa, l’intreccio di linee blu alle nostre spalle. Il reticolo miceliare è la mappa della storia recente del fungo e ci ricorda che tutte le forme di vita sono processi, non cose. L’«io» di cinque anni fa era molto diverso dall’«io» di oggi. La natura è un evento che non si ferma mai. Come ha osservato William Bateson, il biologo che ha coniato la parola «genetica»: «Comunemente pensiamo agli animali e alle piante come a materia, mentre in realtà sono sistemi attraverso i quali la materia passa di continuo». Quando siamo di fronte a un organismo, che sia un fungo o un pino, catturiamo un frammento del suo sviluppo continuo”.
Di norma il micelio cresce dagli apici ifali, ma non sempre. Quando le ife si uniscono a formare il corpo fruttifero, si riempiono rapidamente di acqua che assorbono dall’ambiente circostante. È per questo che i corpi fruttiferi tendono a comparire dopo la pioggia. La loro crescita può generare una forza esplosiva, Quando un fungo del genere Phallaceae – o «corni fetidis» – penetra attraverso un blocco di asfalto produce una forza sufficiente a sollevare un oggetto di centotrenta chilogrammi.
Se penso alla crescita del micelio per più di un minuto, anche la mia mente comincia ad allungarsi.
A metà degli anni ottanta il musicologo americano Louis Sarno registrò le musiche tradizionali del popolo Aka, che vive nel. foreste della Repubblica Centrafricana. Una di queste registazioni si intitola Donne che raccolgono funghi. Mentre raccolgono funghi, rappresentando con i propri passi la forma sotterranea del reticolo miceliare, le donne cantano accompagnate dai versi degli animali della foresta. Ognuna canta una melodia diversa, ogni voce racconta una storia musicale. Tutte queste melodie si intrecciano pur conservando la loro molteplicità. Le voci si inseguono in mezzo ad altre voci, si avvolgono l’una all’altra, si affiancano.
Donne che raccolgono funghi è un esempio di polifonia, cioè l’unione di più voci in cui ciascuna conserva un ruolo distinto, oppure l’unione di più storie raccontate nello stesso momento. A differenza di un coro a cappella a quattro voci, le melodie di quel donne non si saldano mai in un fronte unico. Nessuna voce rinuncia alla propria identità individuale, ma nemmeno ruba la scena alle altre. Non c’è nessuna stella, nessuna solista, nessun capo. Se a dieci persone, dopo avere ascoltato quella registrazione, venisse chiesto di replicarla, tutte canterebbero qualcosa di diverso.
Il micelio è una polifonia in forma corporea. La voce di ciascuna donna è l’apice ifale che esplora individualmente un orizzonte sonoro. Nonostante ognuna sia libera di vagare a suo piacere, il suo percorso non può essere considerato separato da quello delle altre. Non c’è nessuna voce dominante. Nessuna melodia principale. Nessuna pianificazione centralizzata. Eppure, una forma
emerge.
Ogni volta che ascolto Donne che raccolgono funghi le mie orecchie cercano di orientarsi scegliendo una sola voce, come se fossi nella foresta e mi mettessi accanto a una di loro. Seguire più di una melodia contemporaneamente è difficile. Sarebbe come cercare da ascoltare varie conversazioni tutte in una volta senza passare dall’una all’altra: vari flussi di coscienza devono mescolarsi nella mente, la mia attenzione non deve concentrarsi su un punto solo ma distribuirsi su diverse voci. Non ci riesco mai. Però, quando placo l’udito, accade qualcos’altro. Le melodie si fondono e diventano una sola canzone che non esiste in nessuna delle voci singole; una canzone impossibile da trovare dipanando la musica in fili separati.
Il micelio è il risultato del mescolarsi delle ife fungine, flussi di incarnazione più che di coscienza. Come mi ha ricordato Alan Rayner, un micologo specializzato nello sviluppo miceliare: «Il micelio non è soltanto ovatta informe». Le ife possono unirsi formando strutture elaborate.
Il corpo fruttifero del fungo è il suo frutto. Immaginate grappoli d’uva che spuntano fuori dal terreno e la vite che li ha prodotti ramificarsi e attorcigliarsi sotto il suolo. L’uva e la vite sono composte da tipi diversi di cellule. Se raccogliete un corpo fruttitero, vedrete che è composto dallo stesso tipo di cellule del micelio: le ife.
Oltre ai corpi fruttiferi, le ife possono dar vita ad altre strutture. Molte specie di funghi formano filamenti cavi chiamati «cordoni» o «rizomorfe». Possono essere sottilissimi o avere uno spessore di diversi millimetri ed estendersi per centinaia di metri. Le singole ife sono tubi, e non fili – è facile dimenticare che
al loro interno è presente del liquido -, cordoni e rizomorfe sono come grosse condutture formate da tanti tubicini. Sono in grado di condurre un flusso mille volte più velocemente della singola ifa – circa un metro e mezzo all’ora secondo una stima – così che le reti miceliari possano trasportare acqua e nutrienti per lunghe distanze. Olsson mi ha parlato di una estesa rete di Armillaria in una foresta svedese grande quanto due campi da football. Nell’area c’era un torrente attraversato da un piccolo ponte. «Guardandolo più attentamente», mi ha raccontato, «mi sono accorto che il fungo aveva avvolto i suoi cordoni sotto il ponte. Lo stava usando per attraversare il corso d’acqua». Come i funghi riescano a coordinare la crescita di queste strutture resta un mistero.
[88] Barbara McClintock, premio Nobel per i suoi studi sui geni del mais, definiva la straordinarietà delle piante «oltre ogni nostra aspettativa». E non perché sanno fare le stesse cose umani, ma perché le radici che le legano per tutta la vita allo stesso luogo le hanno costrette a sviluppare innumerevoli meccanismi ingegnosi» per affrontare le stesse difficoltà che gli animali possono evitare semplicemente scappando. Potremmo dire la stessa cosa dei funghi. Il micelio è una soluzione altrettanto ingegnosa, una brillante risposta ad alcune delle sfide basilari della vita. I funghi miceliari non fanno le nostre stesse cose e contengono reticoli flessibili che si rimodellano incessantemente Anzi, sono reticoli flessibili che si rimodellano incessantemente.
McClintock sottolinea l’importanza di acquisire «una sensibilità verso l’organismo», di avere la pazienza di «ascoltare ciò che il materiale ha da dirci». Vale anche per i funghi? La vita del micelio è assolutamente atro da noi, le sue possibilità bizzarre. Ma forse non ci è poi così estraneo come potrebbe sembrare a prima vista. Per molte culture tradizionali la vita è un intreccio.
Oggi l’idea che ogni cosa sia interconnessa è talmente diffusa da essere diventata un cliché. Il concetto di «rete della vita» è alla base della moderna concezione scientifica della natura; la «teoria dei sistemi», nata nel corso del Ventesimo secolo, considera tutti
i sistemi – dal flusso del traffico ai governi, agli ecosistemi – reti dinamiche di interazioni. Il campo dell’«intelligenza artificiale» dinamiche di interazioni, Il campo dell’intelligenza artificiale» risolve problemi attraverso reti neurali artificiali, e molti aspetti della vita umana sono in continuità con le reti digitali di internet.
La neuroscienza delle reti ci invita a pensarci come reti dinamiche. Come un muscolo troppo allenato, il concetto di «rete» è diventato ipertrofico ed è difficile trovare una materia in cui non venga tirato in ballo.
Eppure fatichiamo ancora a spiegare il micelio. Ho chiesto a Boddy quale aspetto della vita del micelio secondo lei sia tuttora misterioso. «Ah, bella domanda» mi ha risposto esitante. «Non lo so. Ci sono troppe cose. In che modo i funghi miceliari funzionano come reti? Come percepiscono l’ambiente che li circonda? Come inviano messaggi ad altre parti del reticolo e come vengono integrati questi segnali? Sono tutte domande fondamentali a cui sembra che non pensi nessuno, eppure trovare le risposte è cruciale per comprendere in che modo i funghi riescano a fare quasi tutto quello che fanno. Abbiamo le tecniche per studiarli, ma chi si occupa della biologia elementare dei funghi? Poche persone. Credo che la situazione sia preoccupante. Non abbiamo mai riunito gran parte delle nostre scoperte in una teoria complessiva». Scoppiando a ridere ha aggiunto: «Il campo è maturo per il raccolto! Ma non credo ci sia molta gente pronta a mettersi all’opera».
Nel 1845 Alexander von Humboldt osservava che «ogni nuovo passo nella più intima conoscenza della natura ci porta all’ingresso di nuovi labirinti»*?. Le melodie polifoniche come Donne che Raccolgono Funghi emergono da un intreccio di voci: il micelio emerge da un intreccio di ife. Ma la sua piena comprensione deve ancora avvenire. Siamo solo all’ingresso di uno dei più antichi labirinti della vita.
[92] Nel libro del 1904 Kunstformen der Natur [Forme artistiche de la Natura], ricco di illustrazioni, il biologo e artista Ernst Haeckel ritrae in maniera molto vivida licheni dalle forme più varie che sbcano fuori dalla pagina e si stratificano in modi deliranti. Creste e venature si alternano a bolle lisce; gli steli diventano punte e capsule elaboratissime; margini increspati incontrano padiglioni soprannaturali, punteggiati da nicchie e fessure. Fu Haeckel a coniare la parola «ecologia» nel 1866. L’ecologia studia le relazioni tra gli organismi e il loro ambiente, dunque sia i luoghi in cui vivono, sia le fitte relazioni su cui si basa il loro sostentamento. Ispirata dal lavoro di Alexander von Humboldt, l’ecologia nasce dall’idea che la natura sia un tutto interconnesso, «un sistema di forze attive». Gli organismi non possono essere compresi se considerati in modo isolato.
Tre anni dopo, nel 1869, il botanico svizzero Simon Schwendener pubblicò una ricerca in cui proponeva la cosiddetta dual hypothesis, un concetto radicale nella cui visione i licheni non erano più considerati organismi singoli, come si riteneva fino a quel momento, quanto piuttosto organismi composti da due entità molto diverse: un fungo e un’alga. Schwendener suggerì che il fungo del lichene (oggi noto come «micobionte») offrisse protezione fisica e acquisisse nutrienti per sé e per le cellule dell’alga. L’alga partner (oggi nota come «fotobionte», ruolo che a volte può essere svolto da batteri fotosintentici) raccoglieva invece luce e diossido di carbonio per sintetizzare gli zuccheri da cui ricavare energia. Nella concezione di Schwendener, i partner funghi sono «parassiti, anche se con la saggezza di statisti». Le alghe, invece, sono «le loro schiave [..] che [i funghi] cercano […] e costringono al proprio servizio». Uniti, creano il corpo visibile del lichene. Grazie a questa relazione entrambi i partner sono in grado di vivere in luoghi in cui nessuno dei due potrebbe sopravvivere da solo.
La proposta di Schwendener fu respinta con veemenza colleghi lichenologi. Per molti l’idea che due specie diverse potessero unirsi e costituire un nuovo organismo con un’identità separata era sconvolgente, «Un parassitismo utile e vivificante?» lo scherniva un contemporaneo «Chi ha mai sentito parlare di una cosa simile?»
[99] Lederberg era un prodigio. A quindici anni si iscrisse alla Columbia University e a venti fece una scoperta che contribuì a trasformare la nostra concezione della storia della vita. Scoprì infatti che i batteri possono scambiarsi geni tra loro: un batterio può ricevere un tratto da un altro batterio «orizzontalmente». Le caratteristiche acquisite orizzontalmente sono quelle che non vengono ereditate «verticalmente» dai genitori, ma si formano nel tempo. È un principio a noi familiare: quando impariamo o insegniamo qualcosa, entriamo in uno scambio orizzontale di informazioni. Gran parte del comportamento umano, vengono trasmessi in questo modo. Tuttavia, l’idea che gli esseri umani potessero essere coinvolti in una trasmissione orizzontale di geni come avviene per i batteri e incredibile anche se è capitato nei tempi remoti della nostra storia evolutiva. E un po’ come se notassimo un tratto generico «libero» sul ciglio della strada, lo indossassimo e ci accorgessimo di aver sviluppato le fossette. O come se incontrassimo qualcuno per strada e scambiassimo i nostri capelli lisci con i suoi ricci, o semplicemente prendessimo il suo colore degli occhi. Oppure come se ci sfregassimo accidentalmente contro un segugio e sviluppassimo il bisogno incontenibile di correre per ore e ore al giorno.
Grazie al suo lavoro, Lederberg vinse il premio Nobel a trentatré anni. Prima della scoperta del trasferimento orizzontale di materiale genetico, i batteri, come tutti gli altri organismi, erano considerati isole biologiche. Il genoma era un sistema chiuso e si riteneva che fosse impossibile durante il ciclo vitale acquisire nuovo DNA, nuovi geni la cui evoluzione era avvenuta «fuori sede». Il trasferimento orizzontale di geni modifica questo quadro e mostra come il genoma dei batteri sia un luogo cosmopolita composto di geni che si sono evoluti separatamente per milioni di anni. Implica inoltre, come già per i licheni, che i rami dell’albero dell’evoluzione, che per lungo tempo si riteneva divergessero, sono in realtà in grado di convergere all’interno di un singolo organismo.
Per i batteri il trasferimento orizzontale di materiale genetico è la norma. La maggior parte dei geni presenti in un batterio qualsiasi non presentano la stessa storia evolutiva, ma vengono acquisti pezzo per pezzo, esattamente come gli oggetti che si accumulano in una casa. In questo modo un batterio può assumere caratteristiche «già pronte», accelerando più volte l’evoluzione. Attraverso lo scambio di DNA, un batterio inoffensivo può sviluppare una resistenza agli antibiotici e trasformarsi in un supergene virulento. Negli ultimi decenni è emerso che i batteri non sono i soli in questa pratica, anche se ne restano i più fedeli adepti: in tutti i domini della vita si è sviluppato uno scambio orizzontale di materiale genetico.
[103] Un sito intitolato «Ways of Enlichenment». Secondo lui riflettere sui licheni cambia il nostro modo di comprendere la vita: questi organismi possono spingerci verso nuove domande e nuove risposte. «Qual è il nostro rapporto con il mondo? Chi siamo davvero?». Gli astrobiologi declinano queste domande su scala cosmica. Non c’è dunque da stupirsi che i licheni incombano – se non in modo minaccioso, di sicuro concreto – sul dibattito relativo alla panspermia.
Ma i profondi interrogativi esistenziali sollevati dai licheni e dal concetto di simbiosi sono molto più vicini a noi. Nel corso del Ventesimo secolo, l’idea di una collaborazione tra regni ha trasformato la concezione scientifica dell’evoluzione delle forme di vita complesse. Le domande di Goward possono sembrare esagerate, ma i licheni e il loro stile di vita simbiotico ci costringono a riesaminare la nostra relazione con il mondo.
La vita è divisa in tre domini. Uno è costituito dai batteri; il secondo dagli archei, microbi unicellulari simili ai batteri ma le cui membrane sono costituite in modo diverso; il terzo dagli eucarioti. Noi siamo eucarioti, così come tutti gli altri organismi pluricellulari, che si tratti di animali, piante, alghe o funghi. Le cellule degli eucarioti sono più grandi di quelle dei batteri e degli archei e sono organizzate al proprio interno secondo un certo numero di strutture specializzate. Una di queste strutture è il nucleo, che contiene gran parte del DNA cellulare e i mitocondri, i luoghi in cui viene prodotta l’energia. Le piante e le alghe hanno una struttura ulteriore: i cloroplasti, dove avviene la fotosintesi.
Nel 1967 la visionaria biologo americana Lynn Margulis si fece portavoce di una teoria controversa che attribuiva alla simbiosi un ruolo centrale nell’evoluzione delle prime forme di vita. Margulis sosteneva che alcuni dei momenti più significativi dell’evoluzione fossero il prodotto dell’unione – poi stabilizzatasi – di organismi diversi. Gli eucarioti si erano dunque sviluppati quando un organismo unicellulare aveva inglobato in sé un batterio che poi aveva continuato a vivere simbioticamente al suo interno. I mitocondri erano i discendenti di questi batteri, mentre i cloroplasti discendevano da batteri fotosintetici poi inglobati da una delle prime cellule eucariote. Tutta la vita complessa che ne era seguita, compresa quella umana, era la storia di una duratura «intimità tra sconosciuti».
L’dea che gli eucarioti si fossero sviluppati «per fusione e assorbimento» entrava e usciva dal pensiero biologico sin dall’inizio del Novecento, ma era sempre rimasta ai margini «delle società biologica civile». Nel 1967 non era cambiato molto e il manoscritto di Margulis fu rifiutato quindici volte prima di essere finalmente accolto per la pubblicazione. Le sue idee incontrarono una tenace opposizione, così come già avvenuto per altre proposte simili (nel 1970 il microbiologo Roger Stanier sottolineò astiosamente: «possiamo considerare le congetture evolutive [di Margulis] [..] abitudini innocue, come mangiare noccioline, a meno che non diventi un’ossessione, perché a quel punto si trasformale vizio»). Tuttavia, nel corso degli anni settanta fu dimostrato che le ipotesi di Margulis erano corrette. Nuovi strumenti di indagine genetica rivelarono che i mitocondri e i cloroplasti erano nati davvero come batteri liberi. Da allora sono stati scoperti altri esempi di endosimbiosi. Le cellule di alcuni insetti, per esempio, sono abitate da batteri che a loro volta contengono altri batteri.
La proposta di Margulis potrebbe essere considerata una sorta di dual hypothesis riguardo l’origine degli eucarioti. Non deve sorprenderci, dunque, che Margulis per dimostrare la sua teoria avesse mobilitato i licheni, cosi come avevano fatto i propugnatori della sua stessa idea all’inizio del Ventesimo secolo. Secondo Margulis, le prime cellule eucariote possono essere considerate «abbastanza simili» ai licheni. E i licheni resteranno protagonisti del suo lavoro anche nei decenni successivi. «I licheni sono straordinari esempi di come la novità emerga dalla collaborazione» ha scritto in seguito. «L’associazione è ben più della semplice somma delle sue parti»
Tra le più importanti ricadute della teoria endosimbiotica vi è l’idea per cui, in termini evoluzionistici, intere serie di abilità sono state acquisite «già evolute», a partire da organismi che non erano i genitori, che non appartenevano alla stessa specie né allo stesso regno e neppure allo stesso dominio. Lederberg aveva dimostrato che i batteri possono acquisire geni orizzontalmente; per la teoria endosimbiotica, organismi unicellulari avrebbero acquisito orizzontalmente interi batteri. Il trasferimento orizzontale di geni aveva trasformato il genoma dei batteri in un ambiente cosmopolita; l’endosimbiosi aveva trasformato in ambienti cosmopoliti le cellule. Gli antenati di tutti gli eucarioti moderni avevano acquisito orizzontalmente un batterio con la preesistente capacità di produrre energia dall’ossigeno. Allo stesso modo, gli antenati delle piante odierne avevano acquisito orizzontalmente batteri con la capacità, già evoluta, di fotosintetizzare.
In realtà, porre la questione in questo modo non è corretto: gli antenati delle piante non hanno acquisito un batterio con la capacità di fotosintetizzare, quanto piuttosto sono emersi dalla combinazione di organismi capaci di fotosintesi con altri che non lo erano. Nei due miliardi di anni di vita in comune, sono diventati sempre più reciprocamente dipendenti fino allo stato attuale in cui nessuno dei due può vivere senza l’altro. All’interno delle cellule eucariote, rami distanti dell’albero della vita si sono intrecciati e fusi in una nuova stirpe indivisibile. Si sono fusi, o anastomizzati, come fanno le ife dei funghi.
I licheni non rispecchiano esattamente l’origine della cellula eucariote ma, come sottolinea Goward, di sicuro c’è una particolare «assonanza». I licheni sono corpi cosmopoliti, un punto di incontro tra vite. Un fungo non è in grado di fotosintetizzare da solo, ma può acquisire questa capacità orizzontalmente associandosi a un’alga o a un batterio fotosintetico. In modo analogo, un’alga o un batterio fotosintetico non possono crescere attraverso strati di tessuto protettivo, né disgregare la roccia, ma possono avere accesso a queste capacità in una volta sola associandosi a un fungo. Insieme, questi organismi lontani dal punto di vista tassonomico costruiscono forme di vita composite capaci di possibilità completamente nuove A differenza delle piante, che non possono essere separate dai cloroplasti, le relazioni dei licheni sono aperte, un aspetto che conferisce loro flessibilità. In alcuni casi, i licheni si riproducono senza interrompere la relazione simbiotica: frammenti di un lichene che contengono tutti i partner simbiotici possono spostarsi come una cosa sola in un altro luogo e dare vita a un nuovo lichene. In altri casi, i funghi lichenizzati producono spore che viaggiano da sole.
All’arrivo in un nuovo sito, il fungo deve incontrare un fotobionte compatibile e formare da capo una nuova relazione simbiotica.
Unendo le forze, i partner funghi diventano in parte fotobionti; a loro volta, i fotobionti diventano in parte funghi. Eppure i licheni non assomigliano a nessuno dei due organismi. Esattamente come idrogeno e ossigeno combinati formano l’acqua – un composto chimico completamente diverso dai suoi elementi costitutivi – così i licheni sono fenomeni emergenti, completamente altri rispetto alla somma delle loro parti. Come sottolinea Goward, è qualcosa di talmente semplice da risultare di difficile comprensione. «Ripeto spesso che le uniche persone che non riescono a vedere un lichene sono i lichenologi. È per-
ché, siccome sono addestrati a fare gli scienziati, guardano alle singole parti. Il problema è che se si guardano le singole parti del lichene, non si vede il lichene in sé».
[113] Nei licheni un organismo si dipana in un intero ecosistema e un ecosistema si addensa in un organismo. Passano da un «tutto» a un insieme di parti» e ritorno. Passare continuamente da una prospettiva all’altra è un’esperienza che può confondere. «Individuo» a parola latina che significa «indivisibile». Individuo è il lichene nella sua interezza? Oppure lo sono le sue parti costitutive, i suoi membri? Soprattutto, è la domanda giusta da porsi? I licheni sono il prodotto degli scambi tra le loro parti più che delle parti prese singolarmente. Sono reti stabili di relazioni e non smettono mai di lichenizzare: sono verbi e allo stesso tempo sostantivi.
A mettere in dubbio queste categorie è stato tra gli altri un lichenologo del Montana, Toby Spribille, che nel 2016, insieme un gruppo di colleghi, ha pubblicato un articolo su «Science» che minava le basi della dual hypothesis. Spribille descriveva un nuovo attore fungino in una delle principali linee evolutive dei licheni, un partner che era passato completamente inosservato in un secolo e mezzo di indagini scrupolose.
Una scoperta avvenuta per caso. Un amico lo aveva sfidato a polverizzare un lichene e a sequenziare il DNA di tutti gli organismi coinvolti. Spribille si aspettava che i risultati fossero inequivocabi- «d manuali sono chiari», mi ha detto. «I partner sono soltanto due». Eppure, più guardava, meno sembrava sicuro. Ogni volta che analizzava un lichene trovava altri organismi oltre il fungo e alga. «Continuavo a imbattermi in questi organismi “contaminanti”» ricorda «finché non mi sono convinto che non può esserci un lichene privo di “contaminazione”. Inoltre abbiamo scoperto che i “contaminanti” sono sorprendentemente costanti. Più andavamo a fondo, più sembravano essere la regola e non l’eccezione».
Da tempo i ricercatori ipotizzavano che nei licheni potessero essere presenti altri partner simbiotici. Dopotutto questi organismi non contengono microbiomi, piuttosto sono microbiomi farciti di funghi e batteri, oltre ai due attori principali. Nonostante ciò fino al 2016 non era mai stata descritta alcuna relazione stabile. Uno dei «contaminanti» scoperto da Spribille – un lievito unicellulare – si è rivelato molto più di un abitante temporaneo. E’ stato ritrovato nei licheni di sei continenti e il suo contributo alla loro fisiologia è stato talmente sostanziale da far pensare che questi licheni possano essere una specie completamente diversa. Questo lievito era un terzo partner cruciale nella simbiosi. Ma la rivoluzionaria scoperta di Spribille era solo l’inizio. Due anni dopo, lo studioso e il suo team hanno osservato che il lichene lupo – una delle specie più studiate – contiene un altro fungo, un quarto partner fungino, L’identità del lichene si è cosi frammentata in schegge ancora più piccole. Ma anche questa è una semplificazione, mi ha deto Spribile «La questione è infinitamente più complica di qualsiasi cosa abbiamo pubblicato finora. Il “set di base” dei partner è diverso per ogni gruppo di licheni. Alcuni hanno più batteri, altri meno; alcuni contengono una specie di lievito, altri due, oppure nessuna. E, più interessante, non abbiamo ancora trovato un lichene che coincida con la definizione tradizionale di unione di un fungo e un’alga».
Gli ho chiesto cosa fanno dunque i nuovi partner fungini.
«Non ne siamo ancora sicuri» mi ha risposto Spribille. «Ogni volta che cerchiamo di capire chi fa cosa finiamo per confonderci Invece di scoprire il ruolo degli attori che conosciamo, ci imbattiamo in attori sempre nuovi. Più a fondo scaviamo, più ne troviamo».
Per alcuni ricercatori le scoperte di Spribille sono un problema perché suggeriscono che la simbiosi lichenica non è «fissa» come si pensava. «C’è chi pensa che la simbiosi sia come uno scatolone dell’Ikea» mi ha spiegato Spribille «con parti chiaramente identificate, funzioni ben precise e un ordine di assemblaggio».
Le sue ricerche suggeriscono invece che un lichene potrebbe es.sere formato da un’ampia gamma di attori diversi: «devono solo solleticarsi a vicenda nel modo giusto». L’identità dei «cantanti» nel lichene conta poco, è più importante ciò che fanno: la «canzone» metabolica che ciascuno canta. Da questo punto di vista, i licheni sono sistemi dinamici più che un elenco di componenti che interagiscono tra loro.
È un quadro molto diverso da quello della dual bypothesis. Da quando Schwendener ritrasse il fungo e l’alga come il padrone e lo schiavo, i biologi hanno dibattuto a lungo su quale partner controllasse l’altro. Ora, però, il duetto è diventato un trio, e il trio un quartetto; e anche il quartetto suona più come un coro. Spribille non sembra turbato dal fatto che non sia possibile dare una definizione univoca di lichene. È un punto su cui Goward torna spesso, assaporandone l’assurdità: «Un’intera disciplina non riesce a definire il suo oggetto di studio?». A proposito dei licheni, Hillman scrive: «Non importa come li chiamiamo. Una forma di vita così radicale e ordinaria deve per forza avere un significato». Per più di un secolo i licheni hanno rappresentato moltissime cose e probabilmente continueranno a mettere alla prova la nostra concezione di organismo vivente sia un organismo vivente.
Nel frattempo, Spribille è impegnato a seguire numerosi nuovi indizi promettenti. «I licheni sono pieni zeppi di batteri», mi ha detto. Anzi, ne contengono talmente tanti che alcuni ricercatori ipotizzano – ed eccoci di fronte a un’altra variazione sul tema del la panspermia – che si comportino come riserve microbiche che seminano specie di batteri fondamentali in habitat che ne sono quasi totalmente privi. Spribille sospetta che facciano anche molto altro. «Credo che alcuni di questi batteri potrebbero essere i leganti necessari al sistema del lichene che gli consentono di non essere una massa informe su un piatto»
Spribille mi ha parlato di uno studio dal titolo Queer theory Jor lichens [La teoria queer applicata ai licheni]. «E’ il primo risultato Google digitando queer e lichen». Gli autori sostengono che i licheni sono creature queer che offrono agli esseri umani la possibilità di andare oltre la rigida struttura binaria: l’identità dei licheni è una domanda più che una risposta già nota. Allo stesso, modo, Spribille ha trovato nella teoria queer un’utile impalcatura concettuale da applicare ai licheni. «Il punto di vista umano è binario e rende difficile porsi domande che non siano binarie», mi ha spiegato. «Le nostre restrizioni in fatto di sessualità rendono difficile porsi domande sulla sessualità, e cosi via. Formuliamo interrogativi a partire dal nostro contesto culturale, e per questo è estremamente complicato farsi domande su simbiosi complesse come quelle dei licheni. Ci consideriamo individui autonomie dunque è difficile per noi immedesimarci».
Spribille descrive i licheni come la simbiosi più «estroversa». Non è più possibile concepire un organismo di qualsiasi genere – esseri umani compresi – distinto dalle comunità microbiche con cui condivide un corpo. L’identità biologica della maggior parte degli organismi non può essere separata dalla vita dei loro simbionti microbici. La parola «ecologia» deriva nel greco oikos, che significa «casa», «abitazione», «luogo di residenza». I nostri corpi, come quelli di tutti gli altri organismi, sono luoghi di residenza. La vita è una serie di biomi contenuti l’uno dentro l’altro.
Non possiamo essere definiti solo su basi anatomiche, perché condividiamo il nostro corpo con i microbi; siamo composti di cellule microbiche più che da «nostre» cellule. Per esempio, le mucche non possono mangiare l’erba, ma le loro popolazioni microbiche si, e il loro corpo si è evoluto per ospitare i microbi in grado di aiutarle. Allo stesso modo, non possiamo essere definiti solo dal punto di vista del nostro sviluppo come organismi che nascono da un uovo animale fecondato, perché, come tutti i mammiferi, dipendiamo dai nostri partner simbiotici che guidano una parte di questo sviluppo. Infine, non possiamo essere definiti solo dal punto di vista genetico come corpi composti da cellule con lo stesso identico genoma: ereditiamo molti dei nostri partner simbiotici microbici dalle nostre madri insieme al nostro DNA «personale». A un certo punto della nostra storia evoluiva, i partner microbici si sono insinuati in modo permanente nelle cellule del loro ospite: i nostri mitocondri hanno il proprio genoma esattamente come i cloroplasti delle piante, e almeno l’ottanta per cento del genoma umano è originato da virus (possiamo addirittura scambiarci cellule con altri esseri umani quando arriviamo allo stadio di «chimere», cioè quando madre e feto si scambiano cellule o materiale genetico nell’utero). Nemmeno il nostro sistema immunitario può essere preso a misura dell’individualità, anche se c’è chi ritiene che le sue cellule possano costituire una risposta a questa domanda perché distinguono I’«io» dal «non io». Il sistema immunitario gestisce i rapporti con i microbi al nostro interno esattamente come combatte gli attacchi esterni, e sembra che si sia evoluto per favorire la colonizzazione da parte dei microbi più che per prevenirla. Come vi fa stare questo pensiero?
Alcuni ricercatori usano il termine «olobionte» per riferirsi all’insieme di organismi diversi che si comportano come un tutto. La parola deriva dal greco holos, cioè «tutto». Gli olobionti sono i licheni di questo mondo, più che una somma delle loro parti. Come «simbiosi» ed «ecologia», anche «olobionte» è un termine molto utile. Se abbiamo parole solo per descrivere gli individui con precisi confini autonomi è facile convincersi che esistano davvero.
Il concetto di olobionte non è utopico. La collaborazione è sempre una miscela di competizione e cooperazione. In molti casi è Possibile che gli interessi dei simbionti non siano allineati. Una specie di batteri presente nell’intestino umano svolge un ruolo fondamentale nel sistema digestivo, ma può causare un ‘infezione mortale se finisce nel sangue. E un’idea a cui siamo abitati. Una famiglia può funzionare bene nel suo insieme, oppure un complesso jazz può fare performance strabilianti, ma entrambi questi gruppi di individui possono covare tensioni al loro interno.
Forse, dopotutto, non è cosi difficile immedesimarci nei licheni. Il loro tipo di relazione illustra bene una delle più vecchie massime dell’evoluzione. Se la parola «cyborg», abbreviazione di cybernetic organism («organismo cibernetico») descrive la fusione tra un organismo vivente e una componente tecnologica, allora noi e tutte le altre forme di vita siamo symborg, «organismi simbiotici». Gli autori di uno studio fondamentale sullo stile di vita simbiotico hanno una posizione chiara su questo punto: «Gli individui non sono mai esistiti. Siamo tutti licheni».
I funghi possono contribuire a salvare il mondo come spiega nel talk di TED Paul Stamets dove c’è anche la proposta di salvare le api con il BeeMushroomed Feeder
What Is Mold and Why Does It Love Bread?
Probabilmente hai già affrontato qualcosa del genere prima. Hai una pagnotta in giro, in attesa di essere mangiata. E se hai intenzione di mangiarlo, potresti anche aver avuto in mente il panino perfetto. Ma poi prendi delle fette e noti che qualcuno… o qualcosa… è arrivato prima. È la muffa, le temute macchie pelose di nero, blu, verde e grigio che si espandono come un prato circolare intento a impadronirsi del tuo pane. Sembra spuntare dal nulla, ma una volta che arriva, non c’è più modo di sbarazzarsene.
Se segui il nostro viaggio nel microcosmo da un po’ di tempo, potresti ricordare che abbiamo già parlato di muffe di melma. Se pensi che abbiamo già trattato questo tema devi tener conto che, quando si tratta di natura, storicamente gli esseri umani non sono stati così bravi a dare un nome alle cose, il che non è del tutto colpa nostra. Per ovvie ragioni, abbiamo usato nomi simili per descrivere organismi che sembrano essere simili tra loro. E le muffe di melma assomigliano in qualche modo alla muffa del pane, con il modo in cui volano entrambe per il mondo come piccole spore e il modo in cui si insinuano e si diffondono sulle superfici. Ma questa somiglianza nasconde alcune differenze piuttosto grandi. Ad esempio, una muffa melmosa è un protozoo, il che significa che il grande organismo che vedi è in realtà un eucariota unicellulare in grado di spingere i confini della sua cellula sempre più lontano.
La muffa, la vecchia muffa normale, come quella che vedi sul pane, non sono niente del genere. In effetti, sono un regno completamente diverso. Loro… sono funghi. E ci sono alcune specie fungine note per formare specificamente la muffa del pane, le più comuni delle quali sono il multicellulare Rhizopus, Penicillium e Cladosporium. Come abbiamo detto, i funghi sono il loro regno di vita, proprio come i protozoi e le piante. Ma sebbene la loro crescita e il loro modo di vivere possano a volte farli assomigliare a membri di altri regni come piante e protozoi, si scopre che i funghi sono i parenti più stretti del regno animale. Naturalmente, i rapporti familiari non significano nulla quando c’è del cibo in tavola. E i funghi non sono come noi. Non possono semplicemente andare al negozio a prendere una pagnotta. Possono comunque viaggiare, volare nell’aria o nuotare nell’acqua come spore. Queste spore sono un po’ come semi, in attesa che la giusta combinazione di temperatura, acidità e umidità metta radici. E per alcune spore fortunate, il pane può potenzialmente fornire queste condizioni. Soprattutto il pane pre-affettato, che ha tutti quegli angoli e fessure nutrienti in cui crescere. E le muffe sono molto brave a crescere. A partire dalla spora, il fungo inizia ad espandersi sotto forma di fili chiamati ife. Le ife crescono sulle punte, le loro pareti sono fatte di chitina dura ma flessibile che consente loro di essere creativi. A volte le ife formano rami propri, e talvolta si fondono l’una con l’altra. Il risultato è una rete di ife chiamata micelio. Ma il micelio non è solo questione di diffusione. È una rete che agisce come un apparato di alimentazione. Le ife secernono enzimi nel pane circostante, scomponendone i nutrienti in modo che il fungo possa mangiare. Fondamentalmente è solo una rete molto ampia di bocche. Questo crea uno spettacolo frustrante quando guardiamo le nostre sconfortanti fette di pane. Ma quando vedi un pezzo di muffa crescere e mangiare un pezzo di pane, stai vedendo una vaga approssimazione degli stessi processi che hanno reso possibile il nostro mondo.
L’abbiamo già visto con il lichene, una collaborazione tra funghi e alghe che scompone le rocce nei componenti minerali che sostengono altre forme di vita. E i funghi possono scomporre molto di più. A Chernobyl ci sono specie che mangiano materiale radioattivo e quindi, paradossalmente, i funghi di grafite calda, potrebbero mangiare il mondo, altro che il pane.
Ma il loro percorso è molto più sottile di quanto potrebbe suggerire il loro aspetto sfocato perché i funghi non solo fanno a pezzi le cose ma formano anche relazioni – relazioni significative, essenziali – con altri organismi. Le radici di una pianta, ad esempio, potrebbero intrecciarsi intimamente con le ife di un fungo, formando un legame che chiamiamo micorriza. E quando i funghi si collegano a piante diverse, possono collegare le piante stesse, fungendo da ponti viventi per scambiare qualsiasi cosa, dai nutrienti ai messaggi di avviso chimici.
Quindi si è tentati, quando si scrive di funghi, di trattarli come qualcosa che deve essere riscattato. Dopotutto, per molti di noi, i funghi sono la cosa che marcisce. Mettono fine al nostro pane, alla nostra frutta e ai nostri snack. Ed è così facile riscattarli quando ripuliscono il mondo per noi. Quando la muffa del pane che ci disgusta, ci ha fornito anche la penicillina, un antibiotico che dopo la sua scoperta accidentale nella muffa ha salvato innumerevoli vite. Ma i funghi, per quanto diffusi possano essere, sono una sfida da definire. Nel suo libro Entangled Life, il micologo Merlin Sheldrake scrive: “Ho cercato di trovare modi per godermi le ambiguità che presentano i funghi, ma non è sempre facile sentirsi a proprio agio nello spazio creato da domande aperte. Può insorgere l’agorafobia. Si è tentati di nascondersi in stanze piccole costruite con risposte rapide. Ho fatto del mio meglio per trattenermi”. L’ambiguità non è difficile da trovare in natura, soprattutto quando ci stiamo avventurando nel microcosmo. Questi sono organismi che parlano a un mondo che ci precede da molto tempo, e nella loro natura duratura, suggeriscono un po’ di come potrebbe apparire il mondo dopo di noi.
Comunemente pensiamo agli animali e alle piante come a materia , mentre in realtà sono sistemi attraverso i quali la materia passa di continuo
Quando siamo di fronte ad un organismo , che sia un fungo o un pino catturiamo un frammento del suo sviluppo continuo