[113] questo caso si ricorre all’ osservazione degli oggetti sensibili e degli eventi interiori e, di solito, si sviluppa samatha mediante la pratica della concentrazione sul respiro.
Di norma, la pratica di vipasyana è incentrata sull’esame dei dati sensibili del mondo esterno in relazione alla vacuità, da un lato, e, dall’altro, sull’indagine degli eventi interiori in relazione alla consapevolezza – così come prescritto in ciascuno dei metodi fin qui considerati. Nella meditazione vajrayana, invece, l’elemento chiave è l’unione inseparabile di vacuità e consapevolezza nella sfera interiore. La parola tibetana che indica “mente” è sem o shepa, ossia “ciò che conosce”. L’atto del conoscere è un dato certo della propria esperienza ma la ricerca del soggetto della conoscenza stessa è destinata ad avere un esito negativo. Per quanto l’attività del conoscere sia incessante, non si riesce a trovare “colui che conosce”. Questo è il non- sé. Non c’è nessuna mente, c’è il non-sé e c’è la vacuità, e questa compresenza può essere denominata anche “unione inseparabile di chiarezza e vacuità”. Immersi nel samsara da un tempo senza inizio, non pensiamo affatto al non-sé, o non-ego, questo perché la nostra attenzione è tutta rivolta verso il mondo esterno. Ma se spostiamo lo sguardo sulla nostra interiorità, scorgiamo questa assenza di sé e l’unione di chiarezza e vacuità. Quest’ultima non va confusa con il Nulla inteso come la mancanza di qualsiasi cosa, perché rimane sempre l’interdipendenza dei fenomeni e la consapevolezza di ciò che sperimentiamo, delle forme, dei suoni e così via.
Le oscurazioni provocate da una scarsa vigilanza mentale le viviamo come se stessimo guardando un film. Non c’è nulla che sia di fatto sulla scena, eppure, tutte quelle immagini, quei suoni e le emozioni da questi suscitate si affacciano alla nostra mente. Ad un esame più accurato, realizziamo che non hanno alcuna esistenza autentica; sono solo l’effetto dell’azione e della presenza di un certo numero di fattori, quali il proiettore, la pellicola, lo schermo, le casse acustiche ecc. Sono solamente il frutto dell’interdipendenza dei fenomeni.
[117] Tomando al nostro racconto, Milarepa diede a Paldar Bum l’insegnamento usando quattro metafore. Primo: «Guarda il cielo, non possiamo dire quale ne sia il centro e nemmeno dove finisce. Allo stesso modo, guarda la tua mente senza un centro né confini». Secondo: «Guarda la montagna, è completamente immobile e stabile. La tua mente dovrebbe diventare ferma e forte esattamente a quel modo». Terzo: «Guarda il sole e la luna, il loro splendore è costante e l’intensità della loro luce è sempre all’apice. Allo stesso modo, la chiarezza della tua mente non dovrebbe affievolirsi». Quarto: «Guarda il grande lago, senza onde, perfettamente calmo e immobile; cosi dovrebbe essere la tua mente». Milarepa non intendeva dire che noi dovremmo effettivamente meditare su una montagna, sul sole, su un lago o sul cielo; queste sono solo metafore per la pratica della meditazione non-concettuale. Milarepa quindi esortò Paldar Bum a meditare senza concetti, che è l’oggetto samatha e a osservare l’essenza della mancanza di pensieri che è l’aspetto vipasyana. Così egli le insegnò a meditare sull’unione di samatha e vipasyana dicendole semplicemente di meditare senza pensieri, e questa è la quinta e ultima istruzione contenuta in questo canto.
Nyima Patdar Bum meditò e tornò da Milarepa con degli interrogativi circa il canto che le era stato donato. Disse che quando guardava il cielo riusciva a meditare come il cielo in uno stato completamente rilassato. Tuttavia, nel cielo sopraggiungevano le nuvole, allora, cosa fare con le nuvole? Riusciva a meditare sulle montagne, ma, nel fare questo, poteva vedere le piante e gli alberi che crescevano sulle pendici, cosa fare con gli alberi e le piante? Poteva anche meditare come il sole e la luna, talvolta però questi sono oscurati dalle eclissi, cosa fare quando c’è un’eclissi? E quando meditava su un lago, anche li, qualche volta si alzavano delle onde, che fare con le onde? Il senso della sua domanda era che lei era certamente capace di meditare sulla mente ma, nel fare ciò, apparivano i pensieri e come poteva meditare su questi pensieri?
Milarepa replicò che era un’ottima cosa che lei potesse meditare come il cielo privo di centro e di confini. Quando le nuvole appaiono non c’è bisogno di considerarle come qualcosa di diverso dal cielo: esse non sono nient’altro che una sua manifestazione. Se si realizza, e si comprende, che la natura di queste nuvole è il cielo stesso, esse si dissolveranno naturamente. Meditare sulla montagna è una buona cosa; le piante e gli alberi che crescono sulle sue pendici non sono diversi dalla montagna stessa; sono semplicemente sue manifestazioni. Meditare sul sole e sulla luna è una buona cosa, ed è nella natura del sole e della luna che vi siano le eclissi. E anche quando si medita su un lago, è probabile che si formino delle onde. Esse altro non sono che un movimento del lago, e quindi semplicemente una sua manifestazione: non c’è nessuna onda che non faccia parte del lago. Milarea infine disse che se si è in grado di meditare sulla mente talvolta possono sorgere dei pensieri, ma essi non sono altro che movimenti che appaiono nella mente. Non sono nient’altro che la mente, semplicemente una sua manifestazione. Quando non si comprende la natura dei pensieri, essi sorgono come onde che fanno parte del lago ma, nondimeno, ne increspano la superficie. Una volta compresa la loro natura e insostanzialità, si acquietano naturalmente. E dunque essenziale comprendere che i pensieri non sono separati dalla mente.
In questo modo Milarepa insegnò l’unione di samatha e vipasyana. Restare senza pensieri è la meditazione samatha, vedere che tali pensieri altro non sono che manifestazioni della mente è la meditazione vipasyana.
Khenchen Thrangu – La Pratica della Quiete e della Visione Profonda
Il crogiolo della consapevolezza – Persona e non sé nella psicologia buddhista
Rispondi