Circa cinquant’anni fa, lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick utilizzò per la prima volta una parola per tutti quegli oggetti inutili che si accumulano in una casa: kipple. In “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, che servì come palinsesto per il film “Blade Runner”, teorizzò che “l’intero universo si sta muovendo verso uno stato di totale, assoluta kippleizzazione”. Il kipple, materia residuale di oggetti o addirittura vite che un tempo ebbero un uso (tradotto in italiano, quando si è provato timidamente a tradurlo, con un impotente palta), si riproduceva, scriveva Dick, quando nessuno era nei paraggi.

Delle varie direttrici di Dick il vero collante, peraltro già menzionato, è il rapporto tra realtà e apparenza. In altri termini è la risposta alla domanda: cosa è reale?
I confini tra reale e irreale sono confusi, l’originale e la copia non si distinguono. Nasce di qui l’approccio dickiano che segnala il territorio caotico, mutevole, intraducibile che pervade la realtà, contraffacendola. Quella stabile è illusoria, è una pseudo-realtà in cui è assente un piano provvidenziale e dove nessuna garanzia di comodo è assicurata, dove l’apparenza è incoerente, la conoscenza fragile. La verità è polvere, “kipple”, che si impasta, si confonde, si sgretola come dopo un’esplosione (Dick pensava a quella atomica). E rinvia al problema della confusione delle identità, all’ambiguità tra uomo-donna, bene-male, visione oggettiva-soggettiva, vita-morte, uomo-simulacro-simulazione, per dirla con Baudrillard. Sull’ambiguità Dick ha molto insistito perché, pur conducendo alla “falsificabilità”, da intendersi non popperianamente ma come “falsaria”, essa nel contempo porta umanità nel sociale e ne garantisce la sopravvivenza.

Con internet e i social network, il mondo è cambiato e oggi gli algoritmi sono costruiti per catturare l’attenzione delle persone. Per ottenere un profitto da una certa operazione, è fondamentale mantenere focalizzati gli utenti”. Per i due esperti è quindi importante che le persone acquisiscano una maggiore consapevolezza del funzionamento di questi strumenti, anche a livello base. Inutile, invece, riprendere chi ci circonda ricordandogli di passare meno tempo sulle varie piattaforme. “In questo caso andiamo a toccare una sfera molto intima delle persone e questo comportamento può infastidire. Meglio piuttosto agire sulla conoscenza, permettendo a tutti di scegliere in modo più maturo”. Se i ruoli si confondono… Se conoscere a fondo le leggi che regolano l’informatica può essere un percorso molto lungo e complicato, gettare un’infarinatura è fattibile, secondo l’esperto: “Solo quando una certa consapevolezza raggiunge un certo numero di persone, allora è possibile avviare un discorso che abbia un impatto sociale significativo – chiosa Codenotti in la Rivoluzione Silenziosa– Non dobbiamo infatti dimenticare che è difficile sganciare il discorso specifico sui software di apprendimento dall’impostazione generale della società, sempre più finalizzata al profitto”.

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